Il lavoro di medico è un lavoro particolare, sicuramente delicato e pieno di grandi responsabilità, forse, per certi versi, la "mitizzazione" della medicina è ingiustificata, esistono lavori più stressanti, faticosi, nei quali alla fatica fisica o psicologica non si accompagna un adeguato compenso economico (non è che i medici in generale guadagnino così tanto, ma c'è chi sta peggio), non si tratta quindi di un lavoro "eroico", è un mestiere come un altro, ma ha una caratteristica che forse non ha nessun'altra professione: il contatto con le persone sofferenti, con il dolore e con momenti intimi e che quasi nessuno condivide con gli altri. Tutte le professioni sanitarie hanno questa caratteristica, dall'infermiere, all'ostetrica, l'operatore socio-sanitario, si lavora spesso con chi sta male, con chi ha una fragilità o un dolore. Ma il medico è quasi sempre quello che deve decidere, agire, comunicare.
Forse è per questo e per mantenere una corazza fatta di sicurezze e certezze molto fragili che si scontrano con l'essere degli umani assolutamente normali, che difficilmente un medico racconta le sue debolezze, le indecisioni, i dubbi e gli errori, il paziente vuole mettersi nelle mani di qualcuno capace dell'impossibile non di un uomo capace inevitabilmente solo del possibile.
Esistono dei momenti, durante la vita del medico, difficili e particolarmente impegnativi, ma uno, forse il più impegnativo (almeno secondo me) è quello che si prova quando hai davanti un altro essere umano che sai non avere più speranze. Davanti al dolore fisico c'è sempre la possibilità di provare a dare sollievo, persino di fronte ad una diagnosi molto grave puoi sempre sperare che le cure facciano effetto, ma quanto tutto è stato fatto, quando ogni tentativo è fallito, il medico sa che chi ha di fronte non ha un futuro.
È dura ed è molto difficile capire quale sia il comportamento più adatto.
Voglio raccontarvi una di queste storie per provare a far capire come possa essere difficile il contatto con una vita comune che però non ha speranza di continuare, come siano complicati e delicati comportamenti ordinari, come parlare, rispondere, guardare.
Una donna si presenta al pronto soccorso per dei disturbi molto vaghi, non li elenco ma si trattava di sintomi abbastanza lievi. La sottopongo a degli esami tra i quali un'ecografia ed è questa che mi porta al sospetto di un problema molto grave, un tumore, probabilmente di quelli che non lasciano molte speranze. Per avere conferma di quanto avevo visto chiamo anche un collega che ha lo stesso sospetto.
Alla paziente non diciamo tutto, spieghiamo naturalmente ciò che si vedeva, cosa poteva essere, ma provammo a non comunicare il nostro pessimismo, fondamentalmente inutile e non importante in quel momento.
Le diciamo che sarebbe stato necessario un approfondimento e così fu, gli ulteriori esami confermarono purtroppo i sospetti, si trattava di un tumore maligno di quelli più gravi.
La paziente fu sottoposta ad intervento chirurgico ed anche ciò che vedemmo con i nostri occhi non fu per niente bello, la malattia era disseminata, difficilmente estirpabile.
Dovete sapere che parlare di cancro, anche per un medico, anche per la medicina, è un tabù: una parola che terrorizza, spaventa, lascia senza fiato. Così anche tra noi che ne vediamo tanti, raramente si sentirà pronunciare quel termine. Cancro così diventa "K", si trasforma in una lettera, impersonale, neutra, che non ha nessun connotato negativo, qualcuno scrive "Ca", un tumore maligno, chiamato Ca (pronunciato "ci-a"), fa meno paura, anche a noi medici. Altri ancora assegnano un nome latino, una lingua nobile, usata forse per dare eleganza e poca cattiveria ad una parola che terrorizza: "mali moris", il "male dei mali".
Questa paura nel pronunciare quel nome scompare nei referti, che non possono mentire o nascondere ed il referto della paziente era chiaro, un tumore maligno, un cancro.
Fondamentalmente la paziente segue l'iter di tutte le donne con quel problema, si ricovera ed è sottoposta ad intervento, era una paziente tra tante, una donna elegante, giovane, simpatica, molto curata, ma non era diversa da altre, da tante donne, mamme, mogli, che avevano avuto la stessa diagnosi, è frequente entrare in confidenza con chi hai in reparto ma i pochi giorni di degenza e gli impegni non permettono di approfondire la conoscenza o di entrare più a contatto.
Fino a quando un pomeriggio viene in reparto una bambina, era la figlia della signora, circa 11-12 anni, quando vede la mamma piena di tubi, flebo, cerotti e cateteri è evidente la sua sorpresa. Ero abbastanza vicino per sentire ciò che si dicevano e la figlia chiese alla madre cosa avesse, mi colpirono le sue mani, intrecciate in uno spasmo di paura che le legava una all'altra deformandole, unite con forza, in un gesto che mostrava tutto il terrore e lo sbalordimento di quella piccola donna. La mamma, per non allarmare la bambina naturalmente fu evasiva: "la mamma sta male, qualche giorno di ricovero e poi torna a casa".
Successe proprio questo, arrivato il momento della dimissione fui io a doverle spiegare cosa sarebbe successo, l'intervento era andato bene così come la convalescenza, le spiegai che sarebbe stata sottoposta ad altre terapie, alla chemio, forse altri esami e che comunque ci saremmo visti per i controlli.
Mi fece una domanda precisa: "dottore, ma è grave? Quante speranze ho di farcela?". Un medico non può mentire, ma anche la verità può essere detta in tanti modi, senza bugie ma ricordandosi di avere di fronte una persona come te, io sapevo che quella donna aveva poche speranze, lo sapevo e dovevo comunicarglielo. Le dissi che la malattia era grave ma che, visto l'intervento e le successive terapie, le speranze c'erano, ci saremmo visti ed anche la voglia di combattere e l'ottimismo potevano essere delle ottime armi. Non dissi una bugia ma forse neanche tutta la verità.
Rividi la paziente dopo circa 3 mesi, stava benissimo, era tornata ad una vita praticamente normale, ben vestita, una bella espressione, vivace, era tanto in forma che stentai a riconoscerla e quando mi salutò dovetti riflettere un po' prima di ricordarmi di lei.
"Signora, ma lei è in formissima!", mi rispose che stava benino e che quando le capitava di essere un po' giù o pessimista pensava ai miei occhi ed alle mie parole e tornava subito ottimista.
Ne fui contento ma sentìi anche molta responsabilità, una parola sbagliata, una frase buttata lì, un pensiero espresso con poca attenzione, anche queste cose fanno parte della cura, anche questa è (dovrebbe essere) medicina, per lei, pensare alle mie parole ed al mio sguardo era diventato un appiglio, un incoraggiamento ed un motivo per sperare. È tanto bello quanto duro da sapere.
Persi di nuovo di vista la paziente per rivederla solo due anni dopo.
Stavolta non rividi la donna di prima, quella elegante, truccata e ben vestita, vidi una donna distrutta, trascurata, chiaramente scoraggiata. Le chiesi come andasse e mi rispose che l'ultimo controllo aveva evidenziato un ritorno della malattia e rimasi di sasso. La guardai fissa e lessi nei suoi occhi una domanda, una richiesta, in quegli occhi c'era la sua vita e cercava risposte da me, si aggrappava totalmente alle mie parole, di nuovo e provai ad incoraggiarla ancora..."vedrà signora, ce l'abbiamo fatta per due anni, ce la faremo ancora...", lei mi rispose "io non voglio vivere per due anni, voglio vivere fino a 60 anni, ho una figlia, una famiglia..." e rimasi senza parole, mentre lei aveva ancora quello sguardo pieno di domande e paura, ci guardammo per qualche minuto e riuscìi ad abbracciarla ma non ebbi la forza di dirle altro, abbassò i suoi occhi e silenziosamente si allontanò, chiamata dall'infermiera che doveva farle un prelievo.
Esistono dei momenti, durante la vita del medico, difficili e particolarmente impegnativi, ma uno, forse il più impegnativo (almeno secondo me) è quello che si prova quando hai davanti un altro essere umano che sai non avere più speranze. Davanti al dolore fisico c'è sempre la possibilità di provare a dare sollievo, persino di fronte ad una diagnosi molto grave puoi sempre sperare che le cure facciano effetto, ma quanto tutto è stato fatto, quando ogni tentativo è fallito, il medico sa che chi ha di fronte non ha un futuro.
È dura ed è molto difficile capire quale sia il comportamento più adatto.
Voglio raccontarvi una di queste storie per provare a far capire come possa essere difficile il contatto con una vita comune che però non ha speranza di continuare, come siano complicati e delicati comportamenti ordinari, come parlare, rispondere, guardare.
Una donna si presenta al pronto soccorso per dei disturbi molto vaghi, non li elenco ma si trattava di sintomi abbastanza lievi. La sottopongo a degli esami tra i quali un'ecografia ed è questa che mi porta al sospetto di un problema molto grave, un tumore, probabilmente di quelli che non lasciano molte speranze. Per avere conferma di quanto avevo visto chiamo anche un collega che ha lo stesso sospetto.
Alla paziente non diciamo tutto, spieghiamo naturalmente ciò che si vedeva, cosa poteva essere, ma provammo a non comunicare il nostro pessimismo, fondamentalmente inutile e non importante in quel momento.
Le diciamo che sarebbe stato necessario un approfondimento e così fu, gli ulteriori esami confermarono purtroppo i sospetti, si trattava di un tumore maligno di quelli più gravi.
La paziente fu sottoposta ad intervento chirurgico ed anche ciò che vedemmo con i nostri occhi non fu per niente bello, la malattia era disseminata, difficilmente estirpabile.
Dovete sapere che parlare di cancro, anche per un medico, anche per la medicina, è un tabù: una parola che terrorizza, spaventa, lascia senza fiato. Così anche tra noi che ne vediamo tanti, raramente si sentirà pronunciare quel termine. Cancro così diventa "K", si trasforma in una lettera, impersonale, neutra, che non ha nessun connotato negativo, qualcuno scrive "Ca", un tumore maligno, chiamato Ca (pronunciato "ci-a"), fa meno paura, anche a noi medici. Altri ancora assegnano un nome latino, una lingua nobile, usata forse per dare eleganza e poca cattiveria ad una parola che terrorizza: "mali moris", il "male dei mali".
Questa paura nel pronunciare quel nome scompare nei referti, che non possono mentire o nascondere ed il referto della paziente era chiaro, un tumore maligno, un cancro.
Fondamentalmente la paziente segue l'iter di tutte le donne con quel problema, si ricovera ed è sottoposta ad intervento, era una paziente tra tante, una donna elegante, giovane, simpatica, molto curata, ma non era diversa da altre, da tante donne, mamme, mogli, che avevano avuto la stessa diagnosi, è frequente entrare in confidenza con chi hai in reparto ma i pochi giorni di degenza e gli impegni non permettono di approfondire la conoscenza o di entrare più a contatto.
Fino a quando un pomeriggio viene in reparto una bambina, era la figlia della signora, circa 11-12 anni, quando vede la mamma piena di tubi, flebo, cerotti e cateteri è evidente la sua sorpresa. Ero abbastanza vicino per sentire ciò che si dicevano e la figlia chiese alla madre cosa avesse, mi colpirono le sue mani, intrecciate in uno spasmo di paura che le legava una all'altra deformandole, unite con forza, in un gesto che mostrava tutto il terrore e lo sbalordimento di quella piccola donna. La mamma, per non allarmare la bambina naturalmente fu evasiva: "la mamma sta male, qualche giorno di ricovero e poi torna a casa".
Successe proprio questo, arrivato il momento della dimissione fui io a doverle spiegare cosa sarebbe successo, l'intervento era andato bene così come la convalescenza, le spiegai che sarebbe stata sottoposta ad altre terapie, alla chemio, forse altri esami e che comunque ci saremmo visti per i controlli.
Mi fece una domanda precisa: "dottore, ma è grave? Quante speranze ho di farcela?". Un medico non può mentire, ma anche la verità può essere detta in tanti modi, senza bugie ma ricordandosi di avere di fronte una persona come te, io sapevo che quella donna aveva poche speranze, lo sapevo e dovevo comunicarglielo. Le dissi che la malattia era grave ma che, visto l'intervento e le successive terapie, le speranze c'erano, ci saremmo visti ed anche la voglia di combattere e l'ottimismo potevano essere delle ottime armi. Non dissi una bugia ma forse neanche tutta la verità.
Rividi la paziente dopo circa 3 mesi, stava benissimo, era tornata ad una vita praticamente normale, ben vestita, una bella espressione, vivace, era tanto in forma che stentai a riconoscerla e quando mi salutò dovetti riflettere un po' prima di ricordarmi di lei.
"Signora, ma lei è in formissima!", mi rispose che stava benino e che quando le capitava di essere un po' giù o pessimista pensava ai miei occhi ed alle mie parole e tornava subito ottimista.
Ne fui contento ma sentìi anche molta responsabilità, una parola sbagliata, una frase buttata lì, un pensiero espresso con poca attenzione, anche queste cose fanno parte della cura, anche questa è (dovrebbe essere) medicina, per lei, pensare alle mie parole ed al mio sguardo era diventato un appiglio, un incoraggiamento ed un motivo per sperare. È tanto bello quanto duro da sapere.
Persi di nuovo di vista la paziente per rivederla solo due anni dopo.
Stavolta non rividi la donna di prima, quella elegante, truccata e ben vestita, vidi una donna distrutta, trascurata, chiaramente scoraggiata. Le chiesi come andasse e mi rispose che l'ultimo controllo aveva evidenziato un ritorno della malattia e rimasi di sasso. La guardai fissa e lessi nei suoi occhi una domanda, una richiesta, in quegli occhi c'era la sua vita e cercava risposte da me, si aggrappava totalmente alle mie parole, di nuovo e provai ad incoraggiarla ancora..."vedrà signora, ce l'abbiamo fatta per due anni, ce la faremo ancora...", lei mi rispose "io non voglio vivere per due anni, voglio vivere fino a 60 anni, ho una figlia, una famiglia..." e rimasi senza parole, mentre lei aveva ancora quello sguardo pieno di domande e paura, ci guardammo per qualche minuto e riuscìi ad abbracciarla ma non ebbi la forza di dirle altro, abbassò i suoi occhi e silenziosamente si allontanò, chiamata dall'infermiera che doveva farle un prelievo.
Davanti a quello sguardo, dopo un iniziale imbarazzo, provai per qualche secondo un'indecisione, la mia mente voleva capire se dovevo comportarmi da professionista tecnicamente e freddamente ineccepibile o se fosse giusto aggiungere quello che c'è oltre il professionista, l'uomo sotto il camice bianco. Ho pensato "e se i tuoi occhi fossero i miei?".
Se un giorno avrò anche io quello sguardo da un letto di sofferenza e trovassi un mio simile al quale mi sono affidato, cosa mi aspetterei, quale sarebbe il mio desiderio?
Quegli occhi avrebbero potuto essere i miei, probabilmente lo saranno, in un letto al posto di quel paziente e di fronte a me ci sarà un altro medico al posto mio, probabilmente farei quello stesso sguardo, fisso, interrogante e speranzoso. È una sensazione strana, profonda ed hai due possibilità per risolverla: annullarla o accontentarla.
Nessuna delle due possibilità è la migliore (o almeno io non so quale sia), nessuna delle due è semplice da scegliere. Ma mi chiedo cosa vorrei io al posto del paziente, se preferirei che quel medico annullasse la sua persona per svolgere freddamente il suo compito o se preferirei che assieme al suo compito riuscisse a dirmi qualcosa, ad essere un compagno di avventura.
Non è facile, lo capisco, ma andare via avvolti dalle parole di un altro essere umano che ti accompagna nella malattia può servire a sentire il calore che manca in quei momenti.
Ebbi nuove notizie della signora circa un anno dopo, mi dissero che era ricoverata nel reparto di medicina interna, due piani sopra quello in cui lavoravo io. Aspettai di finire il turno per togliermi il camice ed andarla a salutare, in borghese, come fossi un conoscente, senza dirlo a nessuno, non andavo come medico ma come uomo.
Arrivato davanti alla sua stanza c'erano un po' di persone in attesa. Assieme alla sorella della signora altri miei colleghi, tutti in borghese. Nessuno aveva rapporti di parentela o amicizia con la signora, eravamo tutti lì, chissà perché, per un saluto, uno sguardo, eravamo lì per lei, una paziente come le altre, tanto che non ci rivolgemmo parola, come se non ci conoscessimo. Uno ad uno entrammo nella stanza. Io salutai la signora che, ormai grave, mi riconobbe e mi fece un sorriso, le dissi qualcosa, la accarezzai e la guardai negli occhi, ricordando quanto furono importanti per lei i miei occhi, le sorrisi e lasciai il posto ad un collega, uscendo pensai a sua figlia, la bambina che con le mani intrecciate dalla paura le chiedeva cosa avesse.
Ero in reparto e leggevo la posta quando mi arrivò la notizia che la signora non ce l'aveva fatta.
La pensai e, come si vede, la penso ancora oggi e di anni ne sono passati.
Non cambierà nulla della sua storia, forse non ho aggiunto nulla alla sua vita, ma il fatto che il suo ricordo è ancora qui con me è un piccolo segno che anche chi muore resta con noi.
Oltre a questo ho la convinzione che dove non arriva la medicina o dove si ferma la vita, a volte, le parole, l'uomo, un abbraccio, sono quello che chiunque in quei momenti vorrebbe avere.
Forse, se riuscissimo a vedere i nostri occhi negli occhi degli altri, di tutti gli altri, potremmo dire di vivere veramente e di vivere oltre la vita.
Alla prossima.
Ebbi nuove notizie della signora circa un anno dopo, mi dissero che era ricoverata nel reparto di medicina interna, due piani sopra quello in cui lavoravo io. Aspettai di finire il turno per togliermi il camice ed andarla a salutare, in borghese, come fossi un conoscente, senza dirlo a nessuno, non andavo come medico ma come uomo.
Arrivato davanti alla sua stanza c'erano un po' di persone in attesa. Assieme alla sorella della signora altri miei colleghi, tutti in borghese. Nessuno aveva rapporti di parentela o amicizia con la signora, eravamo tutti lì, chissà perché, per un saluto, uno sguardo, eravamo lì per lei, una paziente come le altre, tanto che non ci rivolgemmo parola, come se non ci conoscessimo. Uno ad uno entrammo nella stanza. Io salutai la signora che, ormai grave, mi riconobbe e mi fece un sorriso, le dissi qualcosa, la accarezzai e la guardai negli occhi, ricordando quanto furono importanti per lei i miei occhi, le sorrisi e lasciai il posto ad un collega, uscendo pensai a sua figlia, la bambina che con le mani intrecciate dalla paura le chiedeva cosa avesse.
Ero in reparto e leggevo la posta quando mi arrivò la notizia che la signora non ce l'aveva fatta.
La pensai e, come si vede, la penso ancora oggi e di anni ne sono passati.
Non cambierà nulla della sua storia, forse non ho aggiunto nulla alla sua vita, ma il fatto che il suo ricordo è ancora qui con me è un piccolo segno che anche chi muore resta con noi.
Oltre a questo ho la convinzione che dove non arriva la medicina o dove si ferma la vita, a volte, le parole, l'uomo, un abbraccio, sono quello che chiunque in quei momenti vorrebbe avere.
Forse, se riuscissimo a vedere i nostri occhi negli occhi degli altri, di tutti gli altri, potremmo dire di vivere veramente e di vivere oltre la vita.
Alla prossima.